domenica 15 giugno 2014

L'Ingegnere. Ricordo di un maestro e non solo...




L'ingegnere. Ricordo di un maestro e non solo... (link)




Bullettino Storico Pistoiese», CXVI, 2014, (terza serie, XLIX), pp. 17-24 
Giampaolo Francesconi 
"L’Ingegnere. Ricordo di un maestro e non solo..." 
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     Le mani incrociate dietro la schiena, il passo lento, la voce cadenzata quasi in un’espressione ritmata e riflessiva, mai troppo gratuita. È questa una delle prime immagini che la memoria mi restituisce dell’Ingegnere. Era, del resto, l’atteggiamento che spesso assumeva, quando al sabato sera dopo la visita alla Società pistoiese di storia patria, lo accompagnavo verso casa. Il tragitto, da Vicolo della Sapienza prima e da Via Filippo Pacini poi, verso Largo Santa Maria era divenuto col tempo e con una confidenza che via via si faceva più larga, pur rimanendo sempre nei ranghi di una inevitabile deferenza, una consuetudine e un momento di proficuo e di intimo dialogo. 
     L’Ingegnere, non sono mai riuscito a chiamarlo Natale nonostante credo ad un certo punto lo avrebbe preferito, in quelle camminate serali, meglio se accompagnate dalla luce calante o addirittura dal buio fatto, è stato in grado di donarmi attimi difficilmente cancellabili. L’uomo duro, tutto d’un pezzo, rigido ancor prima nei confronti di se stesso che degli altri, in quelle brevi ma reiterate camminate attraverso i vicoli della sua Pistoia, aveva col tempo, mi piace credere anche con una stima e un’amicizia crescente nei miei confronti, lasciato che squarci della sua intimità si aprissero e si facessero sempre più intensi. Ma ancor di più, se è possibile un di più, era riuscito a trasformare la familiarità della conversazione in un accesso persino più diretto verso quella sua acuta e spesso impareggiabile capacità logica, direi quasi geometrica, di inquadrare i problemi, si trattasse di un tema storico, di un aspetto dell’attualità – anche se di politica non parlava mai volentieri tranne che negli ultimi tempi quando si soffermava su un personaggio a lui davvero poco gradito – oppure di un qualche programma da attuare all’interno della Società. Devo dire, col tempo che è trascorso e col senno di poi, che, nonostante qualche inevitabile rigidità figlia di una certa timidezza e di un carattere per nulla facile, l’Ingegnere aveva quasi sempre ragione. 
     Camminare al suo fianco è stato per me un piacere e una scuola, per lui credo un modo per lasciarsi andare a qualche intima confidenza con un amico più giovane. Mi rendo conto solo adesso che quel cammino di rientro verso casa è stato anche, se non soprattutto, un cammino a ritroso nella sua memoria. Non sarà facile dimenticare le parole, sovente venate da un malcelato senso di rammarico e da un filo di nostalgia, con cui mi parlava delle estati della sua giovinezza trascorse nella campagna di Pistoia, sulle colline della Valdibure, oppure dei giorni duri, ma anche assai formativi, che lo avevano visto impegnato nella seconda guerra mondiale. 
     E fu proprio in uno di quei tragitti serali che, quasi in una forma di inconsueta confessione, mi chiese cosa pensassi dell’idea di riordinare e di trascrivere gli appunti che aveva annotato su un taccuino, in presa diretta, durante la sua esperienza di giovane ufficiale. Quella sorta di segreto consiglio, quell’apertura di credito, mi avrebbe trasformato nel primo e forse unico lettore di quelle Memorie di guerra, al di fuori dell’ambito familiare. L’Ingegnere, del resto, mi aveva reso partecipe di un progetto che nei suoi intenti avrebbe dovuto assumere un prioritario valore pedagogico per tutti coloro che non avevano vissuto l’esperienza della guerra, per i suoi nipoti in primo luogo e forse in quel caso anche per me. Mi chiese di leggere quel che via via riordinava e scriveva, che «metteva in bella» come gli piaceva dire, purché io mi impegnassi a non riprodurre nulla in fotocopia delle pagine che di sabato in sabato mi passava. 
     Quei sabati di una decina di anni fa, o forse qualcosa di più, sono stati un momento di sincera amicizia, forse anche di superamento di quella relazione di discepolato che sin lì aveva caratterizzato il nostro rapporto: io leggevo e restituivo con qualche piccola notazione, lui ringraziava, borbottava e mi passava il capitolo successivo. Quelle memorie spero che potranno ora essere rese pubbliche, non foss’altro perché costituiscono un distillato straordinario della capacità storica dell’Ingegnere, del suo dolcissimo e controverso rapporto con la memoria e della sua stessa cristallina capacità di scrittura. Anche in quel caso, come in gran parte della sua opera storiografica, aveva dato prova di inconfondibile linearità sintattica, di quella pulizia e di quella facilità espressiva che erano il tono più vistoso della sua lucidità e della sua immediatezza di pensiero. 
     Quella sorta di diario bellico è una conferma ulteriore, se ancora ce ne fosse bisogno, di una sensibilità archivistica che in Rauty doveva essere già ben viva sin dagli anni in cui era stato giovane studente di ingegneria a Pisa e poi soldato nell’Italia settentrionale, in Baviera e sull’Appennino ligure: una sensibilità archivistica che si declinava nella cura per la trascrizione di ogni ricordo, di tutti quei momenti che aveva ritenuto degni di essere fermati e che senza il supporto della registrazione scritta si sarebbero inevitabilmente perduti. Non sarà possibile, in questo senso, dimenticare l’insistenza, anche nella veste di animatore della Società, con cui ribadiva la necessità di scrivere, di scrivere lettere, di mantenere ferme nella scrittura tutte quelle relazioni cui si dava una qualche importanza: si trattasse della professione o si trattasse di amicizia e di affetti. 
     E ho ben presente davanti agli occhi la fanciullesca soddisfazione con cui più volte mi aveva mostrato gli scaffali ben ordinati con i faldoni del suo archivio personale, di storico e di ingegnere, conservati nel piano rialzato del suo appartamento di Largo Santa Maria: «ecco, vedi, qui dentro c’è tutto quello che ho fatto, c’è tutta la mia vita». Se oggi posso provare un rammarico, un rammarico anche dolce ma irrimediabile, è proprio quello di avergli scritto meno di quanto avrei voluto e forse di quanto egli avrebbe desiderato. 
     Il tempo che scorre, il tempo che scorre e che inevitabilmente si perde e ci sfugge credo sia stato un suo cruccio e un suo costante motivo di interrogazione. Ricordo ancora quanto mi disse una volta al ritorno da uno dei suoi abituali soggiorni marini a San Vincenzo, con la signora Rita: le passeggiate sulla spiaggia, al mattino presto o all’imbrunire, erano per lui oltre che un piacere ovvio e naturale anche un modo per perdersi nell’atemporalità, in un paesaggio in cui i segni del tempo erano deboli o del tutto assenti. E continuava: quel mare, quel panorama inalterato con l’Elba all’orizzonte da quanto tempo era così, di quanto ci aveva preceduto e per quanto ancora avrebbe mantenuto quei contorni. Non erano le domande di un filosofo, erano anzi le domande di un uomo che aveva forse esorcizzato quelle riflessioni dedicando gran parte della sua vita proprio alla ricerca dei segni che il tempo aveva lasciato, che si trattasse di un’architettura, di un resto archeologico o di una scrittura su pergamena. 
     Mi piace pensare che quel suo frugare rigoroso, quel suo frugare da ingegnere con una solida formazione classica, fra le carte medievali nascesse proprio da quella mai del tutto risolta interrogazione. È come se nell’Ingegnere il tempo escatologico, il tempo dell’attesa e del compimento cristiano fosse sempre stato percepito come separato dal tempo storico, dal tempo degli uomini e delle loro azioni. Una scissione che, credo, ben si colga nei suoi interessi storiografici, pur vari, da battitore libero, ma sempre calibrati e orientati da domande molto concrete e molto vicine ad una sensibilità aperta e incline alla curiosità. E che, di più, quasi sempre nei suoi percorsi di studio aveva tenuto ben presenti, cogliendo le sollecitazioni che potevano provenire dal restauro di un palazzo, dal ritrovamento di un documento o da una questione storiografica da lui ritenuta stimolante, penso ad esempio alla cosiddetta «questione longobarda» che tanto lo aveva interessato e affascinato fino agli ultimi anni della sua vita. Una certa melanconia di fondo che ne solcava il carattere era, insomma, sempre stata tenuta bene a bada da una mente rigorosa e da un empirismo equilibrato che ne aveva guidato scelte professionali e di studio. 
     Scrivere dell’Ingegnere mi è difficile. Lo sforzo è duplice o forse anche triplice: per l’affollarsi dei ricordi, per l’affetto da dominare e perché sono quasi certo che avrebbe avuto qualcosa da “bofonchiare”. Magari anche con una qualche soddisfazione che spesso riusciva a far trapelare, ma certo con quella rigorosa tensione che rendeva davvero difficile accontentarlo. E che in primo luogo chiedeva e pretendeva da se stesso. Ed era difficile perché era un uomo di straordinario talento e di acuta intelligenza, ma soprattutto era un uomo rigoroso e un infaticabile lavoratore. 
     Ricordo con chiarezza due cose che mi ripeteva spesso: che aveva imparato a lavorare con assiduità ed entusiasmo proprio al ritorno dalla guerra, perché in fondo quel vuoto e quel furto di gioventù aveva insegnato a quella generazione la religione del lavoro e poi che solo il lavoro quotidiano, continuo e appassionato può dare i frutti migliori. Nessuna intelligenza, mi diceva, può dare grandi frutti senza la costanza e la perseveranza: questa era una sua convinzione, mi viene da dire, assoluta. Per questa sua gratuità nel fare e nel dare, l’Ingegnere è stato una delle figure più significative della mia vita adulta. Quello che, con un’enfasi che probabilmente non avrebbe gradito, potrei definire un maestro. 
     Un maestro naturale, con la spontaneità e l’affabilità di chi sa insegnare e divulgare senza bisogno di avere una cattedra. E sono state queste le prime doti che ho potuto conoscere ed apprezzare di Natale Rauty, sin da quando Giovanni Cherubini, una volta affidatomi il tema di laurea – la formazione e la gestione del districtus cittadino a Pistoia – mi indirizzò verso quel nome che conoscevo solo per aver letto qualcosa, allora non molto a dire il vero, di storia medievale pistoiese. Sin dal primo contatto avvenuto in una mattina di fine settembre o d’inizio ottobre del ’92, io di qua e lui di là dal grande tavolo di castagno della stanza d’angolo all’ultimo piano di Palazzo Balì, compresi che mi trovavo di fronte a qualcosa di molto diverso da quel che avevo sin lì conosciuto. Alle mie aperture storiografiche e di scuola tipiche dello studente imbevuto di libri e di questioni generali, lui ribatteva con una puntualità e con una profondità di affondo su questioni precise che mi vedevano quasi del tutto impreparato. Era la pratica della ricerca quella che ci separava. Fu così che ebbe inizio una frequentazione sempre più regolare, prima negli angusti ed umidi locali di vicolo della Sapienza, allora sede della Società pistoiese di storia patria, quindi come diceva lui «allo studio», e poi nella sua casa pistoiese o nel buen retiro estivo di Montevestito. Era l’inizio e poi la prosecuzione di un rapporto bellissimo, anche duro talvolta, ma talmente prezioso da aprirmi alla strada del metodo, della pratica d’archivio e del ragionamento empirico. 
     L’Ingegnere sembrava davvero sapere tutto e sapeva davvero molto, il tutto amplificato da un’arguzia non comune e da una conoscenza straordinaria di Pistoia, del suo territorio e dei suoi archivi, sebbene in lui non mancassero certe inevitabili rigidità tipiche dello studioso autodidatta. Sembra persino banale dire che l’Ingegnere mi ha insegnato molto. 
     Ricordo, con la nitidezza con la quale si ricordano le cose che fanno la differenza, una mattina della fine di agosto del 1995. La stesura della tesi di laurea era ormai giunta alle battute finali e per rivedere alcuni dettagli dell’ultimo capitolo l’Ingegnere mi raccomandò, con una certa solerzia, di raggiungerlo a Montevestito. Era domenica, pioveva e nel tragitto dalla macchina alla porta della bellissima casa della famiglia Marchetti, oltre alle asperità dell’improvviso mutamento climatico, ricordo di aver avvertito un misto di emozione e di curiosità per quell’invito festivo. Suonai e aprì con la consueta grazia e cortesia la signora Rita. L’Ingegnere, seduto al tavolo da lavoro sistemato in un angolo defilato della zona pranzo, mi sollecitò a sedermi, con bonaria risolutezza. La lampada gialla della scrivania rifletteva sui vetri della finestra, rigati dalle gocce insistenti dell’acqua, e in un attimo illuminò il dattiloscritto con il mio capitolo, vergato da una fitta trama di correzioni. Anche il modo in cui l’Ingegnere correggeva un testo diceva molto del suo stile inconfondibile, che era un misto di eleganza, di perseveranza e di chiarezza cristallina e pretesa. Mi guardò, mi fece alcuni rilievi e aggiunse: «Si vede che sei arrivato in fondo al tuo lavoro, finalmente un testo centrato nei contenuti e nella scrittura». Rimase poi ad osservarmi, con un’aria quasi divertita, di fronte al mio sguardo perplesso su quelle pagine piene di annotazioni. Ecco, nel suo modo di concepire il lavoro e nello specifico il lavoro di ricerca e di scrittura, quelle pagine erano finalmente buone. Quella mattina di fine agosto mi aprì, e credo per sempre, all’affettuosa disciplina di Natale Rauty. Alla disciplina di un uomo che era nato per essere maestro, che era nato per insegnare e per insegnare ai più giovani. Alla disciplina di un uomo che credeva nella conoscenza e nella condivisione della conoscenza, nel potere risolutivo, anche in termini di promozione sociale, del sapere e che non riusciva a concedere nessun tipo di spazio all’improvvisazione, alla cialtroneria, a tutto quel che nasceva senza avere un progetto preciso: si trattasse di un libro – l’indice doveva essere chiaro sin dall’inizio, di una conferenza o di un convegno. 
     Quando penso all’Ingegnere, così in questi ultimi mesi e forse anche negli ultimi anni quando la sua assenza ha cominciato a farsi sentire sempre di più, penso alla figura di un giusto, alla figura di un uomo che credo di poter dire non ha mai preteso dagli altri più di quanto pretendesse da se stesso. E da se stesso ha sempre preteso moltissimo, fino a soffrirne nell’ultimo periodo della sua vita. Questo tratto del suo carattere penso possa dire molto di quel che Rauty è stato, di quel che è stato anche quando pretendeva che il «Bullettino» avesse una certa forma – non posso non ricordare i giorni difficili per la rivista in cui mi chiese, con l’allora Presidente Giuliano Pinto, di assumerne la direzione ma anche la totale libertà di gestione che più avanti mi ha sempre lasciato fino a non convincerlo del tutto in qualche caso – oppure quando si persuadeva che un problema storico dovesse avere una certa soluzione e non un’altra, troppo semplice o troppo comoda. 
     E non posso, certo, dimenticare nemmeno le parole che spesso ha saputo trovare di fronte a qualche spiacevole situazione, anche accademica, che mi aveva visto coinvolto o quelle, invece, di soddisfazione quando avevo avuto modo di riferirgli di qualche mio piccolo successo che lui credo avesse sempre auspicato. Così come non mi sarà facile dimenticare quelle espressioni, fra il divertito e l’indispettito, con cui mi faceva notare, soprattutto negli ultimi tempi, che certo avevo preso talmente tanta confidenza con la ricerca che ero arrivato ad occuparmi di temi anche fumosi come i linguaggi politici. In fondo, era anche un modo per riconoscere qualcosa alla sua pazienza. 
     Sarà ben difficile, credo impossibile, poter dimenticare quel che ho ricevuto dall’affetto, dall’amicizia e anche dalla stima di Natale Rauty. Per tutto quello che ho imparato, anche in termini di rigore e di appassionato impegno civile, per quel poco che il pudore mi ha qui consentito di ricordare, ma anche per tutto quello che è destinato a rimanere nell’intimo del non detto e che lui ben sapeva, l’Ingegnere, e per una volta voglio chiamarlo Natale, è stato per me un maestro. Un maestro e non solo...